Ci
sono viaggiatori e viaggiatori.
C’è
chi parte solo e chi cerca compagni con cui condividere esperienze;
chi sceglie mete lontane e chi preferisce macinare meno chilometri e
rimanere vicino a casa. C’è chi attraversa nazioni e chi si ferma
tra i popoli locali, dimenticandosi di appartenere a qualche luogo
preciso.
Ci
sono turisti e ci sono pellegrini, esploratori che si muovono con
mappe e cartine e viandanti che errano senza direzioni.
Esistono
persone abituate a organizzare ogni cosa e altre alle quali piace
partire all’avventura senza programmi e piani precisi.
Lui,
semplicemente, viaggiava per tornare.
Se
si resta nello stesso posto tutta la vita non si potrà mai sapere
cosa vuol dire tornare; cosa significa trovarsi sulla via di casa,
conoscere la sensazione che pervade ogni singolo muscolo del corpo
nell’istante esatto in cui si iniziano ad intravedere luci e ombre
della città natia. Se non si cambia prospettiva non si verrà mai a
conoscenza di cosa succede quando si iniziano a sentire i profumi
della propria infanzia, cosa si prova quando lo sfocato dei ricordi
acquista concretezza, palesandoti quanto poco manchi al momento in
cui si riabbracceranno i cari.
Lui
lo sapeva bene, talmente bene da non poterne più fare a meno.
Come
Pollicino disseminava pezzi di sé attraverso tutto il tragitto, per
poter ritrovare facilmente la via del ritorno.
Aveva
un aquilone, di quelli semplici, senza troppe frange e applicazioni;
a chi gli chiedeva perché lo portasse con sé sempre, rispondeva che
era la più idiota occupazione degli uomini liberi. De Gregori e una
playlist che variava nel tempo, ma non troppo.
Un
aquilone, un I-pod e una macchina fotografica analogica. La digitale
aveva distrutto la capacità di ricordare, sdoganato il gusto di
poter fermare il tempo. Quel regalo impareggiabile lasciato a tutti
noi dalla pellicola: capace di definire con precisione ciò che era
splendidamente ombrato dagli anni e dall’esperienza.
Il
bianco e nero non erano diventati altro che un’applicazione,
arrivata dopo il bombardamento di colori, e nemmeno si trattava di
veri bianco e nero, era qualcosa che stava a metà, qualcosa che non
aveva né un senso né una consistenza.
Il
passato aveva acquistato punti solo dopo aver conosciuto il
significato del termine “vintage”, i mercatini erano invasioni di
idioti con tatuaggi sulla pelle e nessuna impressione nell’anima.
Viaggiava
con scarpe comode e con le t-shirt di una vita, sfuggiva le mode del
momento e chi fingeva di non farci caso.
Odiava
il movimento continuo, l’assenza di pause. Era un viaggiatore
stazionario. Uno di quelli che in ogni luogo necessitava di tempo per
sé: trovare una casa tutta sua, illudersi di mettere radici o un
qualsivoglia surrogato che lo facesse sentire parte di qualcosa.
Ogni
viaggio una stramba routine: cercava una sistemazione, un lavoro,
trovava amori che potessero sembrare quelli per la vita. Si ripeteva
di essere guarito, di non dover per forza fare i bagagli per tornare
a casa.
Niente
era come tornare a casa: le canzoni giuste da finestrino a
finestrino, le impressioni di un paese lasciate a un taxista di
periferia, la voglia di raccontare con cura meticolosa i profumi che
lo aspettavano a casa.
Aveva
iniziato a viaggiare spinto dalla necessità di non guardarsi troppo
dentro, impegnato a darsi da fare con un “fuori” sempre
differente.
Non
c’erano donne da dimenticare, lutti da superare, ricordi da
lasciarsi alle spalle; o forse c’era tutto questo senza che se ne
rendesse conto o senza la volontà di prenderne atto. Come nella vita
di ognuno di noi, come quando tra i brani dell’I-pod la modalità
casuale passa quella canzone inaspettatamente.
Non
c’è niente che aiuti a ricordare meglio di una canzone e un
paesaggio visto da un finestrino.
Nessuna
sensazione che ci faccia sentire così splendidamente umani.
Lei,
viaggiava per restare.
Non
aveva radici, persone da cui tornare, cibi che sapessero di ricordi.
Non
c’erano canzoni che le ricordassero giochi d’infanzia, fotografie
annebbiate con cui fare i conti ad ogni sacrosanto Natale.
Per
lei non esistevano nostalgie e notti alla ricerca di bar che la
riportassero agli anni passati.
Lei
tratteneva i ricordi fino all’attimo prima che acquistassero
consistenza; lei era abituata a privarsi della malinconia.
Lei
era costantemente alla ricerca “del posto giusto”, quello dove
poter tornare.
Lei
era tutto quello che lui non aveva mai conosciuto in nessuno dei suoi
viaggi; lei, nella sua incertezza, riusciva ad essere la cosa più
sicura quando il sole si addormentava dietro l’oceano.
Furono
mesi di vita vera, di quella che non si riesce a frenare, come il
sangue che fuoriesce da una lacerazione, che non accenna a placarsi.
Si
amarono come si amano due persone che sanno che non potrà durare:
con morsi, con dolore, con lo stesso vermiglio di una ferita viva; si
amarono in modo totale, nell’unico modo possibile: senza volersi
bene.
Le
parole andavano a placare gli affanni del sesso, per poter dar loro
la forza di ricominciare a farsi male. Il vero amore contempla la
distruzione, il vero amore non conosce comprensione e indulgenza. Non
potrebbe essere altrimenti.
Era
tempo di fare i bagagli.
Lui
era un viaggiatore atipico, amava il mondo ma a nessun posto voleva
bene come a casa.
Adeus.
“Scrivere
è viaggiare senza la seccatura dei bagagli” Emilio Salgari
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