3X13 fa 33metri

Ancora oggi provo ad immaginarmi come sarebbe stato.
Gli errori si pagano, i rimpianti si insinuano fastidiosi tra il dolore al petto di ognuno dei tuoi rimorsi.
Ricordo come fosse ieri quel 12 di giugno: mi svegliai accarezzata dal vento fresco delle mattine di inizio estate; poche ore e il sole avrebbe scaldato anche l’anima più fredda. Carlo era già uscito per andare al lavoro, come al solito si era preparato in un religioso silenzio per non svegliarmi.
Quel giorno avevo il turno pomeridiano, la mattina era mia e potevo prendermela con calma: colazione senza fretta e un bel libro da leggere sotto al pergolato.
Amavo la mia casa, la nostra casa, la mia e di Carlo. Acquistata con tanta fatica, dopo anni di precariato, di orari di lavoro distruttivi, di lettere di rifiuto. Anni difficili ma intensi, anni che come mattoni ci erano serviti a costruire qualcosa di così prezioso da farci emozionare ogni sera, quando gli obiettivi futuri pur se lontani erano colorati di intenzionalità e forza.
Accadde senza fare troppo rumore. Un pomeriggio di dicembre arrivò la chiamata che aspettavo e le mie stampe finalmente uscirono dal cassetto delle speranze e iniziarono a prendere forma. Una forma al sapore di china e carta da spolvero. Niente successi da prima pagina, niente tappeto rosso e barca a vela con cui girare le isole greche, niente “lascio il lavoro al bar”, solo tanta felicità e questa casa.
Mentre riempivo la moka di caffè pensavo a quanti caffè avevo preparato nella mia vita, al numero esorbitante di clienti ai quali avevo augurato una buona giornata e a quanto ero diventata brava a intrattenere discorsi superficiali da accompagnare alle brioches calde che ci portava Giovanni ogni mattina.
Caffè, yogurt, frutta e cereali e una giornata come tante.
Sentii il telefono squillare ma non risposi. Non si risponde mentre si fa colazione. 
Odio la voce metallica e la sensazione di ansia che mi provoca ogni squillo, odio le suonerie, odio chi parla ad alta voce sui mezzi pubblici.
Finita la colazione mi alzai per controllare chi mi avesse chiamato. Nonostante avessi cancellato il suo numero da anni, realizzai quanto fosse stato inutile: me lo ricordavo a memoria e sarebbe stato sempre così. Come il 5 maggio, come le filastrocche per tenere a mente dove non c’è bisogno della lettera H.
È strano come una frazione di secondo possa riportare una barca nella tempesta, quella stessa barca che aveva trovato il suo posto sicuro nel porto, dopo anni alla ricerca di una qualsivoglia serenità.
A 19 anni mi lanciai dall'undicesimo piano di un palazzo. I suoi occhi su di me mentre mi gettavo nel vuoto: “sei incredibilmente brava a farti trascinare in basso”.
Tornai dal lavoro sperando di sentire il suono di un disco provenire dal soggiorno, ma era martedì e Carlo era in palestra. Intuii subito che sarebbe stata una di “quelle sere”.
A volte, quando la notte bussava silenziosa, sentivo quella malinconia del vivere, il dolore non faceva altro che perseguitarmi e iniziavo a bere fino a stare male, fino a ritrovarmi stesa nel mio stesso vomito.
Carlo tornava a casa, mi lavava e mi metteva a letto. Puntava la sveglia un’ora prima del solito, mi preparava un caffè bollente e mi aiutava ad alzarmi.
Carlo mi amava cosi tanto, qualcuno avrebbe potuto trovarlo soffocante. Non io.
Io ne avevo bisogno, io necessitavo di un amore totalizzante, di un amore senza fine, di attenzioni fuori dal comune, di dosaggi esagerati di parole e carezze. 
La frazione di secondo che precede un lancio.
Quella frazione di secondo racchiude le emozioni di una vita, l’intensità di un cuore la cui accelerazione è tanto forte quanto prossima a finire.
Carlo adorava i bambini; una delle prime sere in cui uscimmo insieme ricordo mi disse che ne avrebbe voluti minimo tre. Passava ore a giocare con i suoi nipoti ed era sinceramente felice ad ogni notizia di gravidanza ricevuta da amiche o conoscenti.
Ci mise poco a capire che con me non ne avrebbe potuti avere, che io non sarei stata in grado di gestirli, incapace di gestire anche me stessa. Incredibile a cosa porti l’amore.
Una parte di me soffriva ogni singolo giorno per il dolore che sapeva di infliggergli, ma io ero morta dieci anni fa, mi ero spiaccicata al suolo. Era impossibile occuparmi di altre vite.
Prima di buttarmi avevo contato fino a cento, si conta sempre fino a cento, anche la notte, quando si fatica ad addormentarsi.
Prima di buttarmi avevo ripercorso immagini di gioia, viaggi inaspettati, rientri attesi come la mattina di Natale. Visi amici, amori lontani e parole lasciate sul selciato prima di iniziare un nuovo cammino. Il profumo della pipa di mio padre, il dolce scoppiettio delle castagne sul fuoco le domeniche di novembre, i piedi di mia madre sul cruscotto dell’auto.
Lui, la prima volta che ci siamo conosciuti, la prima volta che abbiamo fatto l’amore. Le prime botte, i primi lividi, le prime scuse, la prima volta in cui ho avuto paura.
La paura va tenuta stretta, è quando smetti di avere paura che ti rendi conto che non c’è più niente da fare.
Prima di buttarmi ho provato a chiedermi scusa ma il rumore dello schianto è stato così forte da non riuscire a sentire. Lui quel rumore non deve averlo percepito nemmeno lontanamente, non credo mi avrebbe richiamata se quel giorno avesse visto il mio corpo sfracellato sull'asfalto.
Il telefono riprese a squillare mentre ero sotto la doccia. Sapevo che era lui, sapevo che non avrei risposto. Quando uscii dalla doccia il mio telefono segnava 12 chiamate senza risposta.

Pensai a tutte le volte che avevo urlato il suo nome prima di buttarmi. Nessuna risposta; solo quel bisbiglio: “sei incredibilmente brava a farti trascinare in basso”.

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