La
vista da qui è splendida: le colline disegnano un paesaggio leggero
e arioso, le nuvole accompagnano i pensieri in una danza dolce e
soave, facendomi dimenticare tutto per qualche minuto.
Il
caffè comincia a salire, la stanza si riempie del suo profumo e io
mi godo l’ennesima colazione all’aria aperta; la assaporo qui, su
questo minuscolo terrazzo che ha segnato i miei ultimi dieci anni di
vita più di qualsiasi altra cosa.
Come
è possibile che dieci anni di vita siano passati così veloci nella
loro agonizzante e interminabile ripetitività?
Non
ho mai avuto il pollice verde, eppure guardo le mie piantine,
accuratamente sistemate in vasi colorati e respiro più forte,
liberandomi dell’affanno di una giovinezza trascorsa tra le pagine
di libri spesso scelti da altri prima che da me stessa.
Ti
ho mai detto che ti volevo bene?
Le
mie giornate sono scandite con precisione da attività ben
organizzate, da orari certi e da una costante assenza di imprevisti.
Ci sono le lezioni del mattino, il pranzo, rigorosamente consumato
alle 12.30, seguito dai laboratori artigianali o dalle ore di lavoro
nell’orto comune.
Adoro
i pomeriggi trascorsi con le mani nella terra, a contatto con un
mondo che guardavo da lontano, così tanto lontano da non rendermi
conto di quanto invece fossimo prossimi.
Il
sole e la pioggia battono sulle nostre divise da lavoro, insegnandoci
a fermarci e a toccare lo scorrere del tempo.
Si
cena per le 20 e per il dopocena c’è una piccola area della
biblioteca riservata ai film e, una volta al mese, possiamo
persino lasciare le nostre richieste.
Sono
a quota quindici ma la lista dei miei desideri continua a crescere.
Sia
mai che qualcosa di nuovo compaia in quegli scaffali tra qualche
mese, o anche più in là con il tempo; se c’è una cosa che ho imparato a
fare qui è aspettare.
Fare
pace con l’attesa è qualcosa che pare così difficile,
impossibile quasi, ma che con il passare dei mesi sembra l’unica via percorribile
in questa foresta di scadenze e correrie.
Sono
arrivata a credere che non ci sia niente di più ricco dell’attesa,
nessun momento così carico di emozioni contrastanti, di paure,
gioie, di lacrime e spasmi muscolari. La mia vita è stata definita
da una serie di soste ansiogene più o meno lunghe. Ricordo la
sensazione precisa di quando si aspetta la morte di qualcuno, seduti
ai bordi della sua esistenza si cerca di fagocitare più ricordi
possibili nella speranza di non rigettare tutto al pari della
peggiore crisi bulimica.
Ti
ho mai detto quanto ti volevo bene?
Mi
tornano alla mente le ore che precedevano una diagnosi, un risultato
medico, una ecografia.
Non
è che non ti abbia voluto, solo, nemmeno ero in grado di volere me
stessa.
Quei
momenti che precedono un esame universitario, una relazione davanti a
una platea, una telefonata di quelle da tachicardia, priva di saliva
e di corde vocali.
Avrei
voluto risponderti ma ero troppo stanca per dare altre spiegazioni.
Alle
23 la mia camera si illumina solo del colore della luna e le
pastiglie prese durante il pasto serale mi consentono di
addormentarmi, prima che i pensieri mi distruggano l’anima.
Prima
di ingurgitare queste pastiglie passavo la notte a guardare la vita scorrere dalla finestra, dal terrazzo o dal letto, costantemente alla ricerca di qualcosa al di là del soffitto. La vita prendeva forme diverse e la sua corsa frenetica
davanti ai miei occhi mi impediva di prendere sonno gettandomi nel
panico più completo.
Mi
addormentavo la mattina, mangiavo a orari sballati e senza logica;
ordinavo pizza d’asporto, patatine e vomitavo passati di broccoli
senza grassi.
Come
avrei potuto prendermi cura di te?
Il
weekend è qualcosa di strano, un elemento di disturbo all’interno
della mia routine ben programmata. Ogni tanto i parenti ci vengono a
trovare portando dolci e destabilizzazione. Non ci sono attività ben
definite ma solo ore interminabili di attesa e crisi decisamente più
frequenti che in settimana.
Le
mattinate del lunedì e del venerdì sono dedicate alla terapia di
gruppo, mentre il giovedì io e la mia psicologa ci concediamo un
tête-à-tête
senza interruzioni.
Da
quando sono entrata in questo manicomiochenonsichiamapiùcosì
ho
sempre odiato la terapia singola. Sono dieci anni che guardo la
persona di fronte a me (per la precisione, le varie persone che sono
passate da qui) pensando a cosa diamine vorrebbe sentirsi dire.
La
Dottoressa Timida, come la chiamo io, è una gran brava donna, usa
camicette fiorate sotto cardigan rassicuranti. Mi coccola con parole
dolci e confortevoli ed è piena di principi e di buone intenzioni,
assolutamente convinta che presto uscirò da qui e mi rifarò una
vita “normale”. La Dottoressa Timida non sa che dalla vita
normale sono scappata a gambe levate, nella completa convinzione di
volermi rinchiudere qui, in una prigione profumata di cloroformio
dove poter fermare le mie paure con farmaci e mura altissime.
Le
mie paure non credo abbiano un’origine e nemmeno uno sviluppo
sensato, le mie paure sono sempre state lì, ferme fuori dalla porta
di ingresso, ansiose di entrare per portarmi fuori nel mondo, sicure
di potermi distruggere con rapidità. Non che io abbia mai cercato di
combatterle, di fronte alla loro arroganza mi paralizzavo e l’unica
cosa che ero in grado di fare era scegliere un libro dalla libreria
di papà e dimenticarle per qualche ora.
Come
avrei potuto proteggerti dalle tue paure se nemmeno sapevo tenere
lontano le mie?
I
libri finirono presto e cominciai a chiudermi in biblioteca per
continuare a galleggiare in un mare di tempeste e onde troppo alte
per poterle cavalcare.
La
prima crisi la ricordo bene, nel giardino della scuola ho visto la
morte sorridente con un album di malattie, pronte a invadere la mia
testa.
Presenta
segni di una lieve ipocondria – avevano detto a mio padre – ma,
non si preoccupi, passerà presto.
Le
altre crisi si sono susseguite come capitoli di un romanzo
cavalleresco, sempre più articolate, sempre meno legate a un nome e
a una definizione.
Poi
è arrivato questo posto, il manicomiochenonsichiamapiùcosì, il
ritrovo di quelli matti come me, quelli che tutti vorrebbero tanto
salvare ma non si sa bene da cosa.
A
molte persone là fuori piace credere che questa non sia vita, che la
nostra rassegnazione coincida con l’assenza di prospettive, con
l’incapacità di affrontare il mondo, con la nostra pazzia.
A
quelle stesse persone fa stare bene pensare che il mondo si divida in
due grandi gruppi: i forti e i deboli. Fanno parte di quest’ultima
categoria tutti i mattichenonsidicepiùcosì, i suicidi, i depressi
cronici, gli psicotici, quelli con disturbi alimentari, sociali,
cognitivi.
Noi,
per loro, siamo quelli strani.
Nella
loro immediata semplificazione del mondo rientrano anche
quellichecelhannofatta, i
deboli che ne sono usciti, i deboli che sono diventati forti.
Personalmente
non mi piace dare definizioni, mi piace quasi meno che riceverle; è
tutta la vita che cercano di inserirmi dentro qualche gruppo, dando
un nome alla mia malattia, alla mia stranezza.
Mentre
loro cercavano di dare un nome alla mia follia io pensavo al nome che
avresti dovuto avere tu.
Depressione,
anoressia, disturbo di personalità, abulia, sindrome maniacale,
ipocondria.
I
vari tentativi di descrivermi mi hanno accompagnata da sempre,
lasciandomi in mezzo a un mare di parole e sindromi dalle quali mi
era difficile uscire ma alle quali sentivo ben poco di appartenere.
Ancora
oggi, dopo anni di visite e terapie, di consultazioni e pastiglie,
resto un grande punto di domanda. Nonostante tutto, rimango ferma
nella convinzione che nemmeno la più certa delle definizioni avrebbe
risolto o anche solo migliorato le cose.
Sarei
comunque ancora qui, su questo terrazzo, ad osservare le colline
cambiare paesaggio a seconda delle stagioni, bevendo un caffè nero
bollente senza zucchero.
Mi
piace bere il caffè non zuccherato perché è l’unica cosa vera
della mia vita, il solo sapore che non camuffo, che accetto così,
nella sua pura verità. Per tutto il resto uso filtri e protezioni,
scelgo quella che voi là fuori chiamate nonvita pur di non
affrontare le superstrade di realtà che corrono furiose, impedendomi
di assaporare il gusto agrodolce delle storie che crea la mia mente.
Non
posso sopportare che la vita vada così veloce da impedirmi di
guardare fuori, aspettando che il paesaggio cambi prima che lo faccia
io, lentamente. Io ho bisogno di questo terrazzo sopra al mondo, un’
astrazione totale dalla concretezza delle giornate; giornate che, da
dieci anni a questa parte, faccio di tutto perché siano senza
emozioni e imprevisti.
Nessuno
pare capire, eppure a me, da qui, sembra tutto così facile. Nessuno
mi chiede mai perché non voglia tornare alla “normalità”,
credendo erroneamente che sia in cima alla lista dei miei obiettivi.
Nella mia testa ci sono le vite degli altri, il profumo della loro
pelle, i marchi caratteriali, le sfumature di ognuna delle loro
emozioni. Io scelgo ogni giorno dove essere, come essere e che
avventura affrontare.
Nella
mia testa ci sei tu, quello che saresti potuta essere.
Io
lotto ogni singolo istante perché mi venga concesso di rimanere qui,
protetta dai dolori e dalle gioie allo stesso tempo, mangiando solo
le verdure del nostro orto e concedendo a chiunque di analizzare al
microscopio ogni mia piccola stranezza quotidiana.
Io
ho scelto di non darti la vita perché è l’unico modo che avevo
per non vivere.
Io
ho scelto di non vivere perché è l’unico modo che conosco per
rimanere in vita.
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