Un doppio cheeseburger, per favore


I corridoi degli ospedali paiono sempre cosi lunghi, tanto da sembrare senza fondo, privi di una fine che troppe volte è l’unica destinazione possibile.
Quando quei corridoi incominciano a diventare abitudine, allora quella fine impari a farla tua, a conviverci quasi volendole bene. Quando inizi a riconoscere i visi di chi vi lavora, di chi ne ha fatto malvolentieri una spiacevole dimora, vivendo le sue giornate senza sentirne più l’odore, quell’odore sterile mischiato all’olezzo della morte.
I primi mesi mi piaceva definirlo così, come il profumo malato di uno studio dentistico per suicidi.
Mi alzavo ogni giorno con l’obiettivo di fare colazione a casa, nella serenità di un disco che scandiva ogni biscotto inzuppato nel caffelatte; per poi finire, immancabilmente, a fissare la macchinetta del reparto.
Minuti lunghissimi a cercare qualcosa che potesse coprire il terribile sapore del caffè solubile.
Una sera, era l’ultimo anno dell’università, salii sul treno molto stanco e con una voglia incredibile di cheeseburger. Le stazioni passavano una dopo l’altra e nella mia testa si succedevano immagini di possibilità culinarie. Poi, ad un tratto, senza una ragione ben precisa, mi soffermai ad osservare i miei compagni di carrozza e notai una bambina smunta e dagli occhi tristi con un foulard in testa.
Certe immagini segnano la nostra vita regalandoci cicatrici indelebili che vanno a scandire ogni singolo giorno del nostro presente. Io quell’immagine non me la dimenticherò mai, neanche ora che di anni ne sono passati parecchi.
In un attimo svanirono panini e algoritmi, preoccupazioni e scadenze più o meno prossime. La fame diventò una forte nausea, la testa inizio a girare e ricordai le ore passate ad accettare la morte di un fratello a cui cederesti la tua vita senza pensarci.
Ricordo come fosse ieri quella conversazione ai limiti dell’assurdo; ottobre stava per giungere al termine e l’autunno era già coperto di nebbia e dolore. Mio fratello stava morendo eppure il mondo attorno a me sembrava essersene dimenticato. Tranne Lei. Lei era mia madre, Lei si avvicinò e mi chiese di chiudere il libro.
Lettere da Capri”, Mario Soldati.
Tuo fratello sta morendo, lo sai vero?
Feci un cenno con la testa, sul mio viso senza volerlo si dipinse un piccolo sorriso, di quelli imbarazzati, di quelli che a sedici anni dovresti averne altre di preoccupazioni. Un sorriso senza gioia ma che urlava muto, privato della voce e della speranza.
Devi imparare ad abituarti alla morte, mi ripetevo mentre la pioggia batteva con insistenza sul casco e su ognuno dei miei pensieri.
Mia madre era diventata ultra protettiva, sapevo che da lì a pochi giorni il mio motorino sarebbe finito in garage per rivedere la luce solo moltissimi anni più tardi.
Le settimane in cui mio fratello doveva rimanere in ospedale, entravo con passo silenzioso nella sua stanza, mi sedevo sulla sedia della sua scrivania cercando di immaginarmi a cosa potesse pensare tutte quelle ore infinite passate sdraiato a letto. Cercavo libri, film, giornali che mi potessero aiutare a comprendere le sue paure, le sue sensazioni più intime. Provavo a entrare nella sua testa, nella sua storia.
Come sarebbe stata la nostra vita dopo la sua morte?
Scuola, casa, allenamento di calcetto; le mie prigioni definivano perfettamente la frustrazione di essere vivo sul campo della morte. A casa si camminava in punta di piedi, su un terreno scivoloso dove solo l’amore era in grado di non farci cadere, ma questo lo avrei capito solo con il tempo.
Il tempo scandiva le mie giornate, definiva i mesi, le settimane, i giorni mancanti alla sua fine.
A scuola il banco vuoto di Luca non mi consentiva distrazioni, bugie o anche solo semplici omissioni. Nessuno mi chiedeva come stava e nessuno voleva sentirmi dire altro. Luca stava morendo, tutti lo sapevano ma nessuno ne era consapevole davvero.
Io sì.
Una sera mi chiamò nella sua camera chiedendomi di andare a comprare i biglietti dei Pearl Jam. Suonavano a Milano i primi di dicembre, per quella data sicuramente si sarebbe ripreso, mi disse.
Ogni volta che ripenso a quell'episodio sento la lama di un coltello entrare piano piano proprio sotto le costole, cominciare a girare togliendomi l’aria e impedendomi di respirare come dovrei. Quel giorno fu la prima volta che guardai la sofferenza negli occhi per poi stringerle la mano. Facciamo un patto, le dissi nel silenzio di quell'assenso fraterno.
- Certo, – risposi - ci andremo insieme.
Il due di dicembre me ne stavo sotto al palco del Forum di Assago, mentre una folla eccitata e piena di euforia cantava canzone dopo canzone.
Luca era morto da una settimana.
Tutti noi eravamo morti insieme a lui, in quella tremenda consapevolezza che avremmo dovuto rialzarci.
Prima o poi.
Ed è spaventoso quanto arrivi velocemente quel “prima”, mentre ciò che vorresti è solo alimentare un “poi” che ti meriteresti.
Tuo fratello sta morendo, lo sai vero?
Ancora oggi, mentre sono fermo a un semaforo, durante le ore di fila sulla A4 o quando saluto Milano all’imbrunire, nella testa mi rimbomba quella frase, detta nell’ingenuità del dolore lancinante di una madre che sta perdendo un figlio. Un dolore così grande che sommato al mio poteva distruggere una famiglia intera o renderla ancora più solida di quanto già fosse.
Camminare per quei corridoi lunghissimi, implorare il rumore perché venga a fare visita, interrompendo quel silenzio omertoso e colmo di angoscia che invade ogni stanza, che delinea il viso di ciascun paziente. Quel silenzio che ti segue fino a casa, in quelle serate spese ad abbassare lo sguardo e ad alzare il volume della televisione.
Andavo a trovare Luca dopo scuola, nelle gelide domeniche senza pace, in cui l’unica speranza era che nessuno mi chiamasse, nessuno mi chiedesse dove fossi e cosa stessi facendo o, ancora peggio, i miei programmi per la serata
Certo che avrei voluto raggiungerli, certo che avrei voluto essere lontano anni luce da quella sofferenza fagocitante. Eppure restavo in quella corsia d’ospedale, in quella casa senza sbarre ma dalla quale non si poteva scappare, non si voleva scappare.
La malattia di mio fratello me la sentivo dentro le ossa, la vedevo riflessa allo specchio, la leggevo negli occhi di chi mi stava accanto ogni singolo giorno.

Oggi, immobile in una delle tante sale d’attesa della mia vita, aspettando l’ennesimo volo che mi riporti verso casa, mi domando chi di noi due sia il vero sopravvissuto.

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